La sveglia suona, senza dovere svegliarmi, l’abitudine ad essere all’erta non riesce mai a lasciarmi, neppure quando potrei riposare, col risultato di mettere in fila l’una dietro l’altra, decine di notti insonni.

 

Getto i piedi sul pavimento, mi costringo ad alzarmi, raggiungo la caffettiera e la svuoto. Mi ricordo chi sono, come mi chiamo e che devo andare a lavorare. L’unica cosa che non riesco ancora a ricordare è come facesse a piacermi tanto, un tempo. Il piacere di andare in reparto sarà finito in qualche cassetto, insieme al vecchio timbro e alla gratificazione professionale.

 

Comunque sia, arrivo al mio posto di lavoro, indosso il camice e il sorriso, entrambi spiegazzati, ma sempre al loro posto, il fonendo assume la posizione del serpente addormentato attorno al mio collo, ho sempre il timore che un giorno si ribelli e mi strangoli.

Nessuno mai mi sorride più radiosamente del collega che ha fatto la notte, mi snocciola tutti gli eventi e crudelmente, se ne va. Rimango qui, con qualche altro collega a fare tutto quello che possiamo. Siamo medici, siamo in missione per conto di Esculapio.

 

Inizio il giro visite, il mio collega si occupa dei Day hospital, io dei pazienti ricoverati, la collega più giovane delle consulenze. Fine del personale medico del mattino. Di pomeriggio un medico, di notte un altro e con un collega in ferie, fine del personale in servizio.

 

Mi piacerebbe fare come in “Doctor House”, “Gray’s anatomy” non l’ho mai visto e non ne so parlare, dove i medici fanno riunioni e discutono dei casi, cazzeggiano e bevono caffè mentre ipotizzano malattie rarissime. Qui, la maggior parte delle volte, le malattie sono normali e sappiamo chi è il nostro nemico. Il problema è che le armi per combatterlo sono spuntate: il paziente ha fatto l’ecografia dell’addome, c’è qualcosa di sospetto, deve fare una TAC.

 

Quello che non sa è che la potrà fare tra cinque giorni, prima non si può, perché, essendo allergico, c’è bisogno dell’anestesista, che non è sempre presente, a meno che non sia un’emergenza. Non lo è. Chi glielo dice adesso? Ovviamente io!

Fatto, anzi è andata bene, non ha reagito troppo male, ha solo detto che non è giusto, che non si fanno aspettare così le persone e che, in altri posti, le cose non vanno così. Ed è vero.

 

La paziente ha l’anemia, ha bisogno di alcune vitamine, comuni, comunissime. In ospedale non ce n’è e non ne comprano, dovrà farle portare da suo marito. Ovviamente, vado a dirglielo con la faccia contrita e il fonendo tra le mani. Stavolta va un po’ peggio e la paziente si lamenta di non ricevere la migliore assistenza. Ha ragione, riceve solo quella che è possibile.

 

La consulenza cardiologica? La farà tra tre giorni, prima è impossibile, a meno che io non scriva che è urgentissima, firmando col sangue, mio o del paziente.

Radiografia del torace? Quella, per fortuna, si fa immediatamente, è tutto a posto, posso dimettere il paziente. Non sa che per dimetterlo devo fare la relazione, il primo ciclo terapeutico, la SDO. Nella migliore delle ipotesi, solo questo, per un totale di almeno, un’ora di lavoro, che sottraggo a qualche altro paziente.

 

Giornata finita. Non ne posso più di essere il parafulmine di tutte le cose che non vanno. Sogno un mondo in cui sono responsabile delle mie azioni e delle mie manchevolezze, e non di quelle di tutta l’organizzazione.

Sono a pezzi e domani sono di notte. Il paziente di solito è contento quando c’è di turno un medico con i capelli bianchi, perché vede l’esperienza dell’età e non vede la stanchezza. Non sa che un medico che a oltre cinquant’anni fa ancora le notti, badando a quaranta pazienti, non ce la fa più.

 

Non sa che, quando, finalmente, andrò in pensione, nessuno mi sostituirà, riducendo sempre di più il personale dei reparti.

Non sa che il medico giovane che ha visto stamattina in reparto, ha un contratto temporaneo, che scade tra due mesi.

Non sa che né io, né lui, abbiamo più voglia di venire qui. Il medico non è qualcosa che puoi fare senza passione, tirando avanti, come se fossi un impiegato dell’anagrafe. È amore, rischio, adrenalina, studio.

 

Ecco perché non abbiamo più voglia di venire qui, in un mondo in cui le schede che abbiamo riempito, valgono più dei pazienti che abbiamo aiutato. Un mondo in cui ci si chiede di salvare un paziente, ma senza spendere troppo.

Un mondo in cui ci si chiede di essere corretti, infallibili, veloci ed economici, tutto nello stesso momento.

Entrambi siamo delusi dal sistema, ma andiamo avanti, nel miglior modo possibile.

Non possiamo arrenderci, siamo in ostaggio del nostro fonendo.

di redazione