di Ornella Mallo

Isole come menti. Menti come isole. Cerchi che si chiudono in se stessi e fagocitano pensieri; parole, onde sonore inghiottite dal vuoto, che si interpone tra un cerchio e l’altro.

La mente di Anna. Il vento scompiglia i suoi capelli filigranati, gioca con l’orlo del vestito di mussola. Sussurra sui suoi occhi stanchi, immersi nel mare. Una bella donna di mezza età, dai modi delicati. È seduta sul ponte della nave che l’avrebbe condotta da Milazzo a Vulcano. Un itinerario che conosce bene e che ripassa nostalgica, rievocando tutte le volte in cui lo aveva percorso in passato, con stati d’animo diversi da quello travagliato di oggi.

Ritornare a Vulcano, dopo anni di assenza. Intraprendere un viaggio metaforico, riemergere dai gorghi che l’avevano risucchiata.

Riappropriarsi di un passato lontano, farne il ponte per la ricostruzione di un futuro insieme al marito, come una volta.

La mente di Marco. Anche lui, un uomo interessante di cinquant’anni. Brizzolato, dagli intensi occhi verdi. Trentun’anni di vita insieme. Un amore giovanile, sfociato in un matrimonio felice. Due figli fortemente voluti. Una famiglia coesa. In apparenza. Ma cosa si celava dietro le maschere, che col tempo avevano iniziato ad indossare? Era davvero accanto ad Anna, Marco? Accanto a lui Anna? O soli con se stessi, dapprima, per poi volare con la mente accanto a chi profittava dei loro vuoti? La loro era una vita realmente condivisa? O una condivisione borghese, di sola facciata?

Assorta solleva lo sguardo verso l’orizzonte. È una mattina di luglio, afosa ed umida. La caligine avvolge tutto in una densa foschia. Tremolano, come miraggi in un deserto, i contorni delle isole sorelle di Vulcano. Si ergono come barriere contro lo scorrere del tempo, sempre uguali a se stesse, impervie ed attraenti. I loro colori netti e decisi si stagliano nella nebbia.

Il verde degli alberi che scendono lungo i pendii, il nero lucente dell’ossidiana, il rosso del fiume di lava di Stromboli, che imperioso si getta in un mare dai riflessi bianchi, regalo di una pomice che galleggia copiosa, e che si intravede nei fondali. Le porte dell’Ade, dicevano gli antichi.

Anna ricorda l’entusiasmo con cui si recò in quell’isola per la prima volta, insieme a Marco. L’odore di zolfo li aveva stregati. Impregnava i vestiti e le anime.

Quell’intimità condivisa, fatta di passeggiate sotto una luna amica al Gelso, immersioni nelle acque calde e faraglioni contemplati dalle sabbie nere. Anna e Marco non isole, ma navi, in viaggio l’uno verso l’altra, alla conquista dell’essenza. Stati d’animo  si propagano al di là dei cerchi, si compattano in trame.

Tornano con i figli, alla ricerca di tempi lenti, isolani, lontani dalla frenesia spersonalizzante della città.

Poi lei si ammala. Perde la gaiezza infantile di cui si era innamorato Marco. Non si ritrovano nei ruoli definiti all’inizio. Lui ha un rifiuto verso la donna provata, che adesso gli è accanto. È una donna richiedente, che toglie tempo a se stesso.

Lei non riconosce quell’uomo duro, dal volto impietrito.

Si tracciano solchi, diventano voragini. Un’Anna sofferente si reca per l’ultima volta a Vulcano, accanto ad un marito – fantasma, con il cuore da un’altra parte.

Erano navi. Adesso sono isole.

Un’isola accanto ad un’isola, avvolte da spirali di zolfo, che chiudono i bronchi ed il cuore.

Si rompe l’incantesimo, Anna non vuole più andare a Vulcano.

Marco va solo, per ritrovare se stesso, dice. Ma è vero? O c’è qualcuno accanto a lui?

Anna si morde le labbra. Rimbombano le strane telefonate captate, dapprima dai figli, poi anche da lei. I richiami di un’altra donna che avvisa della sua presenza nell’ombra, per minare il loro rapporto. Il senso di impotenza di fronte alle suppliche rivolte al marito, che finge di ascoltare. Le maglie si sgranano. S’innamora di un altro uomo. Ma resta delusa. Davanti a sé un’altra isola, avviluppata in se stessa. Una storia fatta di nulla, che muore poco dopo.

Alza gli occhi, non vede più le immagini dolorose del suo passato, ma Vulcano, sempre più vicina. I passeggeri si affacciano dal ponte, ne riconoscono il profilo, ed il suo pennacchio che sbuffa, intermittente. Nelle nari, il suo odore sulfureo. Guarda i turisti che si rotolano nei fanghi, statue di argilla, che si agitano spaventose.

Scende dalla nave, tra bambini che giocano con i piedi impastati di sabbia nera.

Imbocca la strada che dal porto l’avrebbe condotta alla casa in cui si trovava il marito da qualche giorno. Trascina una valigia pesante, carica di un passato ancora vivo e delle speranze di oggi.

Aprire i cerchi, fare incontrare parole, ricominciare a tessere un’unica trama. Appartenersi in modo esclusivo, per sostenersi reciprocamente nella vecchiaia.

Contratta, apre la porta. Il marito è a tavola. Accanto a lui, una donna dall’aria dimessa accarezza un vistoso pancione.

I cerchi si serrano, inghiottono parole. Le menti sono isole.

Le solitudini, isolamenti. Tutto separa il mare. Invalicabile, immerso in un vuoto che inghiotte la luce dei fari.

“Ci prendono per navi e siamo isole”. La poesia di Piqueras nella mente di Anna.