di Ornella Mallo                                                                                                            26/02/2020
Scriveva Ingmar Bergmann: “Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza,
scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima”.
E il film Parasite sicuramente riesce in ciascuno di questi intenti: come un coltello fruga nelle nostre
coscienze, scruta ed eviscera i meandri più profondi dell’animo umano, risvegliando una gamma di
emozioni, le più svariate, dal divertimento iniziale, nel seguire le rocambolesche vicende delle due
famiglie protagoniste del film, alla tenerezza verso i personaggi dipinti nella loro più autentica
fragilità, fino all’orrore per il tragico epilogo. E’ un film che muta registro nel corso del suo stesso
svolgersi, dalla commedia fino al thriller, e tiene inchiodato lo spettatore, tenendo sempre desta
l’attenzione.
Perfetta la regia, attenta ai più piccoli particolari, nella narrazione della storia. Come la fotografia,
che esalta una scenografia minuziosa nella ricostruzione dei due diversi ambienti in cui si muovono
le famiglie protagoniste; la musica, che fa da sottofondo adeguato a tutte le situazioni che si vanno
man mano presentando. Spicca “In ginocchio da te”, di Gianni Morandi, segno dell’influenza sul
regista della cultura italiana. Chissà se il regista coreano Bon Joon-Ho ha visto il Nino Manfredi di
“Pane e cioccolata” di Brusati: anche in questo film viene trattato il tema della lotta di classe. E la
scena in cui Manfredi, emigrante in Svizzera povero e scuro, finito in un pollaio, sbircia gli svizzeri
biondi e belli che vanno a cavallo, ricorda quella in cui Ki-woo, dalla finestra della villa in cui
lavora, guarda gli ospiti eleganti e ricchi dei padroni di casa, dicendo: “Come sono tutti perfetti…
Belli, inappuntabili…”
Liquidare il film “Parasite” dicendo che il tema trattato è solo quello della lotta di classe, e dunque
l’enorme gap esistente tra classe agiata e disagiata nella Corea del Sud come in tutto il mondo, è
sicuramente riduttivo. Al centro del film è infatti l’animo umano, che viene scandagliato nei tratti
più profondi, e conseguentemente anche più scomodi, fino a fare emergere il Caino che è in noi.
Quello che il regista vuole comunicare, infatti, è che, in condizioni estreme, ognuno di noi può
esplodere fino alla ferocia. E che sicuramente, le condizioni dell’ambiente in cui si vive, quando
sono disumane, e al limite della sopravvivenza, possono far scatenare le reazioni primordiali che la
civiltà del benessere è in grado di sopire.
Ciascuno di noi è, in eguale misura, buono e cattivo, ingenuo e scaltro, magnanimo e ignobile. Sono
le occasioni che si presentano man mano, nel corso della vita, a far emergere, dai fondali più
reconditi della nostra personalità, i volti più diversi, sconosciuti perfino a noi stessi. Senza che,
però, questo serva a niente: le cose prendono una piega indipendente dalla nostra volontà,
comunque.
Nella vita ha un peso determinante l’imponderabile.
Per cui, l’agire secondo un piano macchinato dai protagonisti, fin nei più piccoli particolari, non
servirà a molto. E ognuno resterà intrappolato nell’ambiente di provenienza, peggiorando
addirittura le condizioni da cui voleva scappare. Ecco perché, uno dei protagonisti dirà alla figlia,
che guarda sgomenta cadere la pioggia: “
Sai qual è il piano che non fallisce mai? Non averne
uno. Sai perché? Se ne escogiti uno, la vita non andrà mai a quel modo”.
A parlare è Ki-taek, il padre della famiglia Kim, composta da quattro persone: oltre a lui, ci
sono la madre, Chung-sook, il figlio diciottenne, Ki-woo, la figlia ventenne, Ki-jeang.
Una famiglia che vive in condizioni miserabili in un appartamento nel sottosuolo: la finestra
dà sull’angolo del suolo di una strada malfamata, in cui si fermano gli ubriachi a urinare.
Vivono piegando in quattro i cartoni per le pizze da asporto.
Fa da contraltare la famiglia Park, che invece vive in una villa lussuosa, le cui vetrate danno
su un magnifico giardino. I componenti della famiglia, anch’essi quattro, sono tutti gentili,
garbati: ma è l’agio in cui vivono, a determinare questa compostezza, come dice Chung-sook
in una scena del film: “I soldi sono un ferro da stiro che liscia tutte le rughe”.
Tra le due famiglie c’è una linea invisibile, che le tiene ben divise. Il signor Park dice di Ki-
taek, che ne diventa autista, grazie al “
piano
” studiato e attuato nella parte iniziale del film:
“Riesce sempre a non superare il limite”.
Sempre il signor Park si lamenterà del puzzo che lascia in macchina il signor Kim: “un odore
di strofinacci bolliti”, dirà con disprezzo. Questo atteggiamento non solo snob ma anche
cinico, renderà invalicabile la linea di demarcazione tra le due famiglie e sarà la causa della
tragedia con cui si concluderà il film: di fronte all’accoltellamento di Ki-jeang, la
preoccupazione principale del signor Park sarà quella di proteggere le narici dal fetore
proveniente dal cadavere. Il che scatenerà infatti, in Ki-taek, una reazione feroce al punto da
ucciderlo, con un gesto inconsulto.
Nel film si dimostra come la sperequazione sociale, non solo genera una lotta di classe tra
poveri e ricchi: ma anche una guerra in orizzontale, tra appartenenti allo stesso livello
sociale, nel tentativo disperato di sfuggire a un destino che invece inchioda ciascuno al suo
posto, senza nessuna possibilità di riscatto. Per questo verrà assassinata la governante, Moon-
gwany.
Per cui, non resta che sogno, l’intento di cui parla Ki-woo in una struggente lettera al padre,
costretto a vivere nascosto nel bunker della famiglia Park per sfuggire al carcere: il sogno di
studiare, e di guadagnare tanti soldi da potere comprare, un giorno, quella villa, e vivere lì
con lui e con la madre, gli unici superstiti della strage con cui si conclude il film.
Il regista, in modo molto sottile, si avvale, nella comunicazione dei suoi messaggi, anche di
simbolismi e di “metafote”, come ironicamente fa dire a uno dei personaggi.
Intelligente la metafora della pietra che un amico della famiglia Kim, regala all’inizio del
film: una pietra augurale, che deve servire a portare ricchezza a quella famiglia. Inizialmente
pare che effettivamente determini l’ingresso del benessere economico
Sarà invece uno degli strumenti con cui si attuerà la tragicità dell’epilogo: proprio da questa
pietra, verrà colpito alla testa Ki-woo, che entrerà in coma per una commozione cerebrale.
Segno di come nessuno, nella vita, può sottrarsi al proprio destino.
Altra metafora è il biberon con cui la governante allatta il marito, che lei stessa tiene
nascosto nel bunker della villa, per garantirgli la sopravvivenza. Come se lei fosse la madre
di quell’uomo, che nutre ancora come un neonato. Per questo, in un intelligente parallelismo
narrativo, sarà proprio lui a uccidere la figlia di Ki-taek, per vendicarsi dell’assassinio della
moglie.
Film splendido, interpretato in modo magistrale da tutti gli attori che vi si muovono. Ha
meritato tutti i premi di cui è stato insignito: dalla Palma d’oro al Festival di Cannes, ai
quattro Oscar che si è aggiudicato, primo film coreano della storia a raggiungere questi
prestigiosi traguardi.
Profondo, offre innumerevoli spunti di riflessione sulla paradossalità della società di oggi, in
cui sono esasperate le conseguenze del liberismo economico e del capitalismo: non sempre
premia chi è dotato di ingegno, ma prevalentemente offre occasioni a chi ha la fortuna di
nascere in ambienti privilegiati.
(fonte immagine: web)