di Ornella Mallo                                                                                                         22/05/2020
“Non credo che esista una letteratura al femminile, lo stile è personale e non ha nulla a che vedere
col sesso di un autore. Esiste però un punto di vista. E siccome il punto di vista è storico, esiste un
punto di vista delle donne come esiste un punto di vista africano o un punto di vista occidentale. E’
una convenzione parlare di stile femminile in Letteratura, ogni scrittrice ha il suo stile.
Il punto di vista conta: l’uomo va a fare la guerra, la donna sta in casa e si occupa dei figli, almeno
storicamente è così, ed è chiaro che il loro punto di vista sulle cose della vita sarà diverso. Ma non
esiste una scrittura al femminile. Una donna non può far finta di non essere una donna. Ed essere
donna significa conoscere la propria soggezione, significa vivere e respirare la degradazione ed il
disprezzo di sé, che si può superare solo con fatiche dolorose e lacrime nere.”
Scrive così, Dacia Maraini. E la poesia di Gisella Blanco è sicuramente la poesia di una donna: il
punto di vista da cui lei guarda le cose trasuda femminilità, nel senso di conoscenza del dolore della
propria condizione. “Essere donna è dolore.”, scriveva Blaga Dimitrova: “Soffri scoprendoti adulta.
Soffri di essere amante. Soffri quando sei madre. Ma insostituibile è in terra il dolore di essere
donna senza avere conosciuto questi dolori fino in fondo…”
La condizione storica di sofferta sottomissione della donna all’uomo, e dunque la visione
prettamente femminile delle cose emerge nella poesia “La scommessa”, lì dove la Blanco
afferma:”Legioni di uomini a puntare ragioni/e donne a lavarne le tracce,/capo chino per non farsi
vedere inginocchiate/al pomeriggio di fine estate,/stormi di cicale/vacillano nelle orecchie/e
l’empietà/d’ogni negato abbraccio/è corona che ci cinge la testa/di lucciole morte/e spine.”
E il titolo della sua prima silloge di poesie, “Melodie di porte che cigolano”, rimanda a una
condizione di sofferenza. Si tratta di un ossimoro metaforico, quell’ossimoro permanente in cui
consiste la vita, come scriveva Montale nella “Lettera a Malvolio”: il cigolìo, in realtà, non è
un’eufonia. E’ un suono cacofonico per definizione, emesso da porte le cui giunture stridono per
mancanza di olio, da superfici che sfregano tra loro logorandosi. Eppure, la poetessa parla di una
melodia di porte che cigolano, quasi come se il dolore della condizione umana, che comunque si
esprime in pianto, in stridio, si ricomponesse in un’armonia melodiosa, soave.
“L’immaginazione è il segreto del mondo a cui il sognatore e il poeta sono iniziati.”, scriveva
Starobinski. La poesia della Blanco è ricca di simbolismi, di immagini colte dal visibile,sottendendo
l’invisibile. Immagini aspre, come il succo di limoni, infiammanti come l’aceto, saline e luminose
insieme, come la terra di Sicilia, sua terra natia.
Scrive nella poesia “Alla Sicilia”: “Mi avvicino/con passo da predatore stanco/alla mia terra
friabile/ di pareri inermi,/timorosa di tornare/bambina antica/in dimensione stagnante che giace/-
latrocinio di fede che colgo/in flagranza-/ove si trasuda vergogna d’esser preda lenta a fuggire/da
mani ruggenti e generose, /offerte in sacrificio/appena nate,/avvolte in conchiglie/trasparenti di
silenzio./Una perla al centro,/madre accorata senza stagioni,/ha la gonna scucita/da stupri di
equivoci casuali,/qualche orizzonte/che esorbita in percezioni, al largo del mare,/e il mare più
bello/ma io non so nuotare.” Questi versi sono emblematici dello stile della Blanco, uno stile
ermetico, che rimanda al Quasimodo di “Forse il cuore”, cui si avvicina per la nostalgia struggente
verso la terra che è stata costretta ad abbandonare, e che è stata scenario della propria infanzia; e
che tutti e due i poeti ricordano con immagini non edeniche, ma cariche di sofferenza. La poetessa
parla di una terra friabile, cui si avvicina con passo di predatore stanco, per poi ritrarsi come una
preda, che lenta fugge da mani ruggenti e generose. Di una dimensione stagnante, astorica, senza
stagioni; di una Sicilia che è come una madre accorata, stuprata da equivoci casuali, da fedi

depredate della loro autenticità, che si invischiano in provincialismi bigotti. La poetessa intravede,in lontananza, qualche orizzonte: il mare più bello, ma non sa nuotare. Un senso quindi di impossibilità di godere di questa terra, il cui mare comunque non è placido, ma rugoso, acuminatocome schegge di cristallo: “Fingo morte gentile, /crocifissa da onde taglienti/ e scheggiata d’acquasalata./Grappoli d’uva che fa solo aceto/mi cingono i fianchi d’arsura,/ io che amo il dolce,/vagoalla ricerca di frutti clementi/ma prosperano mandorle amare alla mia bocca/che aborrepreghiere./Disseppellisco solo limoni aspri/come se rinvenissi salme urticanti/d’inquietudine,/estrido d’assenza/pura/di origini./[…] Si apre un varco di sgomento/sulla mia terra/e nella mia memoria,/porti sbarrati da legamenti d’incuria umana,/mi sento scacciata/come un gatto di nessuno/-feroce e minuto-/che può aggredire solo se stesso/nella disperata ricerca/di tocco gentile.” Immagini taglienti, che rivelano l’inquietudine dell’autrice, che come un gatto di nessuno, cerca un dolcezza e riparo in una terra che, al contrario, la respinge; e che al contempo si sente estranea anche alla terra in cui è stata trapiantata.

In “Appartenenza” scrive:”Vivo/in terra d’altri,/di sconosciuti,/alieni insoliti,/idoli perversi/che
suturano/in salvezze passeggere/la fame di conforto./Vivo/di terra comprata/con soldi sporchi/e
visioni assolute di fissità./Vivo/senza terra che m’appartenga/e –al culmine di stupore-/spaventosa
mi mantiene/in gravità d’ignoto,/terra avida,/insipida,/cammino scalza/per conoscerla col sangue/e
non pestare tulipani taglienti/-nuovi orrori di bellezza carnivora-/che spargono limiti di perdono/e
veleno profumato per morire./” In realtà, la poetessa manifesta la difficoltà di vivere in un mondo
che non le appartiene, di cui non condivide gli effimeri e falsi idoli: le parole fatue, che ottundono la
mente, ripiene del nulla, infeconde. In “Parole”, scrive: “Avete nella bocca innumerevoli
scheletri:/tutte parole che tradiscono sfiato/e non hanno carne/non seme/orfane di estemporanea
giustizia/che è opera d’arte pregiata/in templi di brevi consistenze./Se pronuncerò anche io/schegge
di coscienza/lanciate in aria,/non stupitevi delle piaghe putrescenti/del reale che è:/sarà mero gioco
di stile,/distillato costoso di disprezzo/teso al vento,/stordito a questo dire di tutti/che è niente e
meraviglia.”/ Da qui, da questo senso di vuoto che pervade il mondo odierno, così teso ad apparire
piuttosto che ad essere, così concentrato nella creazione di bolle di sapone che come niente si
dissolvono, nasce il senso di solitudine che pervade la poetessa, che finisce con l’invilupparsi in se
stessa, sia pure in modo polemico, con rabbia. Paul Celan, altro poeta criptico, sosteneva che i poeti
sono gli ultimi custodi delle solitudini. In “Solitudini” la Blanco paragona gli uomini a naviganti
che avanzano verso “sponde avariate d’evoluzione”, su “barche bruciate”, e con “monete
affondate”. Uomini che si crogiolano in questa condizione di smarrimento, che non vogliono
ritrovare se stessi, né una meta. E scrive nei versi finali: “E ci confondiamo/tra profughi ed
eroi/domandando a chi è disperso nel tempo/-che non siamo-/della silenziosa solitudine/-che
è-,/piangendo la nostra/con voce roca/di piccole gioie profonde./”
Cosa può salvare l’uomo da questa deriva in cui stagna? La poesia, innanzitutto, che ha il compito
di strappare i veli in cui è aggrovigliato l’invisibile. Poesia che nasce sì dallo scavo interiore, lì dove
si voglia raggiungere una piena conoscenza di se stessi, come scrive ne “Il mestiere di poeta”: “Mi
rifugio/in termini emaciati di prove,/lunghe l’attimo che batte la lingua sulle labbra,/quasi bacio al
pensiero/e allusione intensa/ a saperi che fuggono./”
Ma si allarga anche all’attenzione verso l’esterno, che richiede lentezza e uno sguardo pronto a
cogliere le sfumature del mondo che ci circonda, per far sì che i gatti non vengano più arrotati sotto
le macchine, come scrive nella poesia “Come un gatto”: “Agonizzante/ sul ciglio di strada/che è
iniquità di corsa/-ruote che passano sopra/sopra a tutto-/non rimane che la fine/del suo respiro nel
sangue.[…] Veloce si scosta/dal ciglio di strada/che non potrà rivelare, invidiosa,/la sua
​morte/all’ignoranza della fretta./” Chiaramente il gatto non è che il simbolo che racchiude ogni
essere vivente, inclusa la poetessa stessa, e la natura, con le sue bellezze, con i paesaggi che mutano
con il passare delle ore e al ritmo delle stagioni: realtà che vanno apprezzate soffermandosi a
contemplarle, abbandonando ogni fretta.
Altro elemento salvifico, nella poesia della Blanco, che stempera l’acre della condizione umana, è
l’amore. E lì la poetessa si disarma, perde la sua corazza, e ancora una volta rivela un punto di vista
tipicamente femminile. Basta leggere “Senza di te”: “Mi spingo oltre/il limite debole del mio
sguardo/ad ammirar tutta la bellezza intorno/che mi scivola sugli occhi come olio/ e la lascio
scappare/con il petto che accoglie/ancora/il suo fulgore distratto/ma è poca cosa/tutta questa
bellezza/che senza te/ è carne nuda di stupore./” A che serve guardare tutta la bellezza del mondo, se non c’è qualcuno con cui condividerne lo stupore?
L’amore determina una nostra rinascita grazie allo sguardo dell’Altro che ci ricrea, come scrive in
“Rinascita”: “Vorrei che tu/rinascessi/nei miei occhi/affinché possa vederti/totalmente/nella forma
esatta/che agisci/in me.” E l’amore può essere un antidoto contro le paure che ci attanagliano, come
scrive in “Sulle labbra”: “Hai sulle labbra ogni elemento/che serve/nell’economia
spietata/dell’immaginario di te/che si fa ossa,/rovi avvelenati,/antidoto esatto all’arbitrio/delle mie
rumorose fobie./” Anche se la poetessa riconosce la fatuità dell’amore profanato dagli uomini, che
violano e dissacrano la purezza del romanticismo antico, come scrive in “Innamorati”.
Scriveva la Dickinson:”Il cervello ha corridoi che vanno oltre gli spazi materiali.” E la Campo:
“Percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro
esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?”
Con il suo stile ermetico, ricco di immagini evocative di una realtà invisibile rivelata da
illuminazioni improvvise, in cui la mancanza di rime e di assonanze mette in rilievo la fonia di ogni
singola parola, Gisella Blanco, poetessa nata nel 1984, mostra di essere, alla sua opera prima, una
giovane promessa nel panorama della poesia femminile siciliana.
(fonte immagine:web)