Le campagne elettorali, si sa, sono il momento delle grandi promesse, il periodo in cui i candidati di tutti i paesi democratici devono sapersi spendere per dare di loro stessi un’immagine positiva, chiara e rispettabile. In loro, l’elettorato, vuole cogliere  una purezza di intenti  con delle finalità precise: il dialogo con le classi più marginalizzate della società, la politica estera, la sanità e l’istruzione.

Negli ultimi tempi, complice la crisi del 2008 che ha reso ancora più palesi le criticità e i contrasti in seno alle economie di mercato, l’elettore medio  ha chiesto una rottura con il passato.  L’Anti Establishment è stato (al pari del rifiuto del politically correct) il cavallo di battaglia di Donald Trump, che si è saputo ingraziare il favore della  cosiddetta middle class statunitense, precisa fascia della popolazione che, ancora oggi, si trascina i reflussi  della crisi economica.

Malgrado un  miliardario newyorkese sia quanto di più distante, almeno sulla carta, dalle istanze della classe media, la retorica circa la tutela del lavoro e la difesa del made in U.S.A. è riuscita a creare un ponte comunicativo inaspettato, che ha permesso a Trump (al netto delle frasi sessiste, delle posizioni xenofobe e delle aspre critiche ricevute dagli organi di stampa e dagli esponenti del mondo dello spettacolo) di strappare una tanto risicata quanto inaspettata vittoria alle elezioni.

Uno dei punti più importanti della sua campagna elettorale, oltre alle roboanti dichiarazioni in politica interna, è stata la volontà di comporre i critici rapporti con la Russia, ereditati dal primo mandato Obama (e dall’Obama bis). il cui climax si raggiunse con l’espulsione del corpo diplomatico russo gli ultimi giorni di mandato del presidente uscente, portando le due potenze nucleari quasi ai ferri corti.

putin-trumpLa volontà, da parte di Trump, di trovare un terreno di trattativa con la Russia ed ergerla a partner fondamentale per la composizione delle questioni mediorientali ha rappresentato un elemento di novità per la politica americana abituata, come si sa, a vedere nella Russia nulla di più che uno storico rivale.

Ciò nonostante sembra che i rapporti con i russi non siano migliorati sensibilmente e che anzi, lo stesso Trump, stia via via prendendo sempre più le distanze dai suoi stessi proclami di stima e amicizia nei confronti dell’attuale presidente russo. Un primo elemento di criticità è sicuramente costituito dall’ancora aperta questione Ucraina.

“Il presidente Trump ha detto chiaramente che si aspetta dal governo russo una de-escalation delle violenze in Ucraina e la restituzione della Crimea“, queste le parole del portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer. Il governo statunitense ritiene fondamentale per la pacificazione dell’area e per il futuro dei rapporti con la Russia che la Crimea torni sotto l’egida del governo di Kiev (governo sostenuto caldamente da i paesi europei e dalla NATO nella volontà di un allargamento ad est dell’alleanza).

La risposta di Mosca, attraverso le parole del portavoce del ministero degli esteri, Maria Zakharova, non si è fatta attendere: “La Crimea fa parte della Federazione Russa e noi non diamo via la nostra terra”. In definitiva dichiarazioni con cui, apparentemente, entrambe le parti hanno assunto posizioni nette e inamovibili che non potranno che tradursi (salvo l’improbabile dietrofront di uno dei due contendenti) in un aumento del supporto economico e logistico USA/NATO verso il governo di Kiev a cui seguirà in maniera del tutto speculare un aumento della presenza militare russa ai confini dell’Ucraina orientale con il conseguente aumento del supporto ai ribelli filo russi, nell’ottica ormai palese (e apertamente chiarificata da Mosca) di fermare a tutti i costi un’eventuale allargamento della NATO verso Est.

In più, bisogna sottolineare anche l’intransigenza russa nei confronti delle sanzioni economiche introdotte come ritorsione all’alba della questione Ucraina.  Mosca è pronta a offrire supporto e condividere piani strategici per combattere l’Isis (o ciò che ne resta) nei territori di Siria e Iraq a patto che tali sanzioni vengano revocate nella loro totalità. La lotta al “califfato nero”al fianco della Russia, è stato un punto su cui Trump ha posto più volte l’accento in campagna elettorale distanziandosi nettamente dalla rivale Hillary Clinton (notoriamente arroccata su posizioni anti russe) ma che, a oggi, non sta trovando alcun tipo di riscontro, complice un Congresso a maggioranza repubblicana e conservatrice che continua a vedere nella Russia il nemico per antonomasia.

clinton aL’allontanamento del massimo consigliere strategico della Casa Bianca, Michael Flynn, avvenuto poche settimane fa, è la parabola perfetta di come i proclami da campagna elettorale di Trump non trovino alcun raffronto con la realtà e non si reggano su null’altro che la mera retorica.  Accusato di trattative “poco chiare” con i membri dei servizi segreti russi, Flynn è la prima testa a cadere (ma sicuramente non l’ultima dato che l’inchiesta sul “caso Flynn”, condotta dall’FBI, sta facendo emergere una rete di contatti ben più ramificata fra i fedelissimi di Trump e l’FSB russo) e a segnare una nuova ferita nell’idillio fra Vladimir Putin e Donald Trump in un clima di spie, provocazioni militari (secondo il Pentagono la Russia avrebbe fabbricato missili da crociera di nuova generazione che violano apertamente i trattati SALT I e SALT II siglati negli anni ’80) e sconfinamenti territoriali (l’emittente Fox News ha riportato la notizia dell’avvistamento di una nave spia russa vicino la costa occidentale degli Stati Uniti, e il Pentagono ha confermato che una squadriglia di caccia bombardieri russi si sia avvicinata “pericolosamente” ad una nave militare della U.S. Navy) che ricordano fin troppo chiaramente un passato di guerra fredda che, forse, tanto passato non è.

A complicare ancor più le carte in tavola sopraggiunge il fattore Cina, paese in buoni rapporti con la Russia e contro cui Trump, in campagna elettorale, si è più volte scagliato. Attribuendole con le sue produzioni a bassissimo costo l’impoverimento del mercato americano e della sua classe media, ha di conseguenza deciso di infittire le relazioni commerciali e diplomatiche con l’isola di Taiwan, acerrima nemica della Cina per questioni che risalgono alla rivoluzione Maoista, provocando l’astio e la preoccupazione di Pechino che si è augurata che questa non rappresenti l’anticamera di ben più ampi contrasti che possano mettere a repentaglio i buoni rapporti fra i due paesi. (il governo di Pechino, in realtà, vuole scongiurare la presenza militare statunitense a ridosso delle proprie acque territoriali, un settore che, ormai da anni, il governo cinese sta cercando di egemonizzare).

nucleareA questo quadro, già complesso e pieno di sfaccettature, si deve aggiungere l’ormai annosa questione del nucleare iraniano, che Washington ha da sempre condannato e che rappresenta un’ulteriore divergenza con Mosca: l’Iran gode di un notevole soft power nella regione ed è un paese su cui i russi stanno convogliando grandi energie ed aspettative al fine di ridefinire gli assetti geopolitici nell’area (come alternativa al blocco composto dalle monarchie del golfo a guida statunitense) avere un Iran politicamente stabile e in buoni rapporti col Cremlino significa avere una possibile chiave di volta per il medioriente nonché l’alleanza di un paese fra i più grandi esportatori di petrolio.

E’ ancora presto per dichiarare di essere tornati a una nuova guerra fredda, come era frettoloso ritenere che l’elezione di Trump sarebbe riuscita a comporre il complesso mosaico dei rapporti USA-Russia. Nel frattempo è di pochi giorni fa la dichiarazione del governo Statunitense di ammodernare e infoltire l’arsenale nucleare strategico, a cui ha fatto eco la risposta del Cremlino che ha notificato l’intensione di fare altrettanto.

Fabrizio Tralongo