Un film che ha fatto discutere quello di Bellocchio, per l’accento leccese del pentito, per mille altri piccoli difetti della sceneggiatura che anche io ho trovato non azzeccati. Eppure è potente. Favino ha una forza narrativa nel rendere il personaggio di Buscetta da sembrare intozzito anche fisicamente. I muscoli del petto, i tratti appesantiti, accentuati del viso.
Gli perdoni la parlata dopo pochi minuti di film. Perché capisci che Tommaso Buscetta parlava così, vuoi per il soggiorno in Brasile, vuoi per la pretesa di parlare un italiano all’altezza del magistrato che aveva di fronte.
Il pentito Buscetta sembra enfatizzato a ruolo di eroe, eppure la valenza dell’uomo è non averlo fatto per gloria, ma per aver fermamente capito che in quel progetto, in quella “Cosa nostra” lui non si riconosceva più.
La valenza è aver sfidato la morte. Per porre fine al regime di terrore dei corleonesi.
La valenza infine è quando rimasto solo, dopo la morte di Falcone, chiede di testimoniare. Quando il terzo livello quello della collisione stato- mafia, che Falcone aveva deciso di non toccare, per poter ingabbiare prima possibile le belve umane già al  maxiprocesso, diventa per lui imprescindibile parlarne per la stima all’uomo e al magistrato massacrato.
Lì credo lui sia “grande”. Entra da solo. Parla viene d elegittimato e sconfitto.
Dimentichi le imprecisioni iniziali. Un’ improbabile riunione dei capi ove tutti ballano una sorta di tarantella, in occasione del festino di S.Rosalia. Improbabile la tarantella, malgrado il livello rozzo di quella mafia. E stona l’atmosfera raccontata. È un odore e un clima che Bellocchio non può riprodurre. Bisogna percepirle da sempre certe cose.

E infine Santa Rosalia non può essere a Santa d’iddi.

Clotilde Alizzi